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Malinconia per ricordi lontani
di Adriano Bologna
Il sole di fuoco della calda estate del 68 bruciava i muri dei vecchi casolari in pietra del mio borgo. L’incudine dell’ officina di Ugo Speranza come suono di campana a morte, mischiato al canto meccanico delle cicale, creava una atmosfera funesta. Le grida delle donne al lavatoio, al contrario, facevano credere ancora nella vita, le rondini da sotto i balconi, preparavano il loro lungo viaggio verso sud. Mia madre vestita a vita di nero, ricuciva un lenzuolo consumato e strappato mille volte.
All’improvviso vidi Ugo Speranza, con passo stanco e con la sua sagoma curvata in avanti, come a cercare un oggetto smarrito, scendere dalla stradina vicino al lavatoio. Arrivato sulla strada grande alzò lo sguardo verso me, dando al suo corpo una forma sbilenca. Fece con un lento gesto, alzando un braccio, segno di avvicinarmi, voleva darmi triste notizia, era l’aria intorno che presagiva la resa.
Avvicinatomi a lui, sotto i vecchi occhiali, le secche guance bagnate di sudore mescolato a due lacrime, davano conferma a ciò che temevo. Incrociando il suo sguardo vidi un uomo vuoto e disperato, come un padre che ha perso il suo migliore figlio. La resa era definitiva, dopo secoli la trebbia degli Speranza non sarebbe più uscita.