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I pescatori vastesi
Parliamo dei pescatori, di quelli di quando il muro delle lame era ancora in piedi, tanto per datare la cartolina.
C’erano le barche a vela latina, unica e triangolare. Ogni famiglia aveva i suoi colori e disegni per essere riconosciuta. Uscivano la mattina presto e rientravano la sera all’imbrunire. Il muro delle lame a quelle ore si riempiva di donne affacciate a scrutare il mare. Erano mogli e madri; chi sicura e avvezza all’attesa, sferruzzava e chiacchierava con le vicine, le più giovani erano nervose e si aggiustavano continuamente lo scialle in testa. Il mare sapeva essere generoso ma spesso anche crudele e capriccioso. Le paranze sbucavano una ad una dalla sinistra, dove ora c’è la sirenetta; le donne riconoscevano i colori delle vele e quando scorgevano quella della propria famiglia si illuminavano i volti di gioia e dopo un po’ rientravano a casa a preparare la cena per i loro uomini che tra poco sarebbero arrivati. Le paranze ammainavano a pochi metri dalla riva; marinai di terra, anziani con qualche acciacco, preparavano subito assi di legno cosparsi di sugna sui cui facevano scivolavare le chiglie tirate a riva da cavi d’acciaio arrotolati da grossi mulinelli azionati a mano sulla spiaggia.
Il pescato, durante il ritorno, era già stato ordinato per tipo su un tappeto di alghe in larghe e piatte ceste di vimini. I pescatori saltavano dalle barche, con i pantaloni arrotolati sopra le ginocchia (li saliparille), si caricavano sulla testa i cesti di pesce e scalzi e a piedi risalivano dalla marina fino a Porta Palazzo dove si imbastiva il mercatino serale. I ghiottoni di pesce erano lì ad attenderli come cani da punta.
La vendita era affidata ad altri pescatori soci di fatto, mentre quelli che avevano pescato e trasportato si asciugavano e pulivano i volti imbrattati di fiele di seppia colato dai cesti. Fino a qualche anno fa’ c’era ancora la fontanella dove si lavavano. L’odore tutto intorno alla piazza era straordinario e le voci delle trattative era qualcosa di indimenticabile: chiamate sberleffi discussioni sul prezzo, tutto nel più sguaiato dialetto vastese. Mizzanille, panocchie, cianghette, siccitelle, murlucciatte, …. Qualche volta mi capitò di assistere al rito della scafetta, cioè della spartizione di una parte del pescato tra la ciurma della stessa paranza. Era la parte meno nobile del pescato, magari pesce piccolo e un po’ danneggiato, per questo non andava bene per il mercato. La ciurma si accovacciava a formare un cerchio sulla riva. Il capopesca prendeva dal mucchio sotto di sè e distribuiva un pesce per volta, dello stesso tipo, in senso orario a ciascuno dei compagni; egli solo giudicava l’equità della distribuzione e per quante volte ho assistito, non ho mai sentito una protesta. La scafetta era quindi il soprassoldo della paga, ed è rimasto sinonimo di un paio di libbre di pesce misto, adatto per la frittura o nu bruduttuccie. Non so voi, ma per me na scafetta vale molto di più di una spigola al sale.
un pescatore di Vasto nel 1925:
Michele Ruzzi detto Varvajilate (Barbagelata)