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Emigranti

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Molti anni fa’ sono stato a New York per lavoro.
Mio padre volle a tutti i costi darmi il nome di un amico che doveva trovarsi lì da oltre 50 anni e mai tornato: mi dette solo un vecchio indirizzo, dalle parti del porto mercantile.
Avevo una giornata libera e senza alcuna illusione ma per rispetto di mio padre provai a cercare quella persona.
Mi ritrovai in un quartiere semi abbandonato; vecchi magazzini per i cereali, uffici delle dogane con cartelli staccati per metà, palazzi scuri e tetri tutt’intorno.
A poche centinaia di metri c’era l’oceano e i moli d’attracco delle navi.
Mi prese un’angoscia indescrivibile; pensai a casa mia, a mia moglie ai miei figli, ma non saprei dire perché.
Ero un giovane laureato, conoscevo la lingua, viaggiavo già da anni, avevo letto molto degli USA e della città di NY; avevo appena lasciato l’albergo ipermoderno in uno dei tanti grattacieli, tra un paio di giorni avrei ripreso l’aereo per l’Italia; perché allora quell’angoscia? quel desiderio di ripartire subito e tornare al conforto delle mie cose?
Mi tornarono allora in mente i miei nonni che arrivarono proprio lì molti anni prima. Analfabeti, stanchi di un viaggio impossibile, sprovveduti, senza sapere niente di cosa aspettarsi da una città così diversa da quella piccola cara e lontanissima Vasto.
Se a me faceva quell’effetto, loro cosa avranno provato spostandosi la coppola sulla fronte e girando lo sguardo attorno? Avranno cercato un comignolo, una cantina, un negozio, un vicolo, una insegna in italiano, qualunque cosa di familiare; ma dov’erano arrivati? Piccoli uomini impauriti, precipitati in un mondo sconosciuto, senza niente altro che il coraggio della disperazione.
Io potevo telefonare alla prima cabina che trovavo, e l’ho proprio fatto, con sorpresa dei miei che mi chiedevano preoccupati da tante mie domande sulla loro salute e sul clima, quando ci eravamo sentiti appena la sera prima.
Loro no, avrebbero ricevuto una lettera da casa, magari scritta da don Romeo Rucci, mesi e mesi dopo la loro partenza e quella lettera l’avrebbero fatta rileggere diecine di volte immaginando e sentendo la voce dei loro cari.
Trovai una stazione di polizia e chiesi informazione su quell’indirizzo; mi mandarono in un ufficio comunale dove c’era un’anagrafe immobiliare di quella zona. Il cognome c’era tra le famiglie passate in quel quartiere; il nome era diverso ma familiare, il nostro patrono Michele.
Presi indirizzo, elenco telefonico e “alò, Maurizio speaking, from Vasto, Italy…, I’m looking for…”. “Uè paisà..”
Incredibile, aveva detto paisà, come nei film del padrino.
Non era lui ma il nipote, sapeva dire solo paisà e commo staje. Ci mettemmo d’accordo per il pomeriggio, abitavano a Staten Island e per andarci ho attraversato il Verrazzano Bridge.
Quando sono arrivato, non mi crederete, ma ho trovato una cinquantina di persone, tra parenti e altre famiglie vastesi. Mi hanno seppellito di baci e abbracci, strattonate a destra e sinistra, e non mi avevano mai visto prima.
Mi sono ritrovano nel salotto di una tipica casa di americana, di quelle che si vedono nei serial e che volano via con gli uragani. Le poltrone con la protezione di plastica e la gondola nella libreria.
Erano le tre di pomeriggio e avevano atteso me per pranzare, io invece l’avevo fatto ma non ebbi il coraggio di dirlo. Un catino enorme di cockles aperte (cozze), un metroquadro di melanzane alla parmigiana, fettine panate e ogni altro ben di dio.
Hanno voluto sapere tutto di Vasto, e io già non ci vivevo più da diversi anni.
Se c’era ancora questo o quest’altro; quella casa, quel negozio, e così fino al tardo pomeriggio.
Mi hanno mostrato centinaia di foto e cartoline e piangevano mentre me le spiegavano. Il fatto strano è che piangevano gli uomini mentre le donne li consolavano: “meine marite me’, fatte capace, mo sti a la meriche”. Poi mi portarono dai vicini americani come fossi un trofeo; mi fecero visitare la scuola dei figli e mi presentarono il sacerdote della cappella. Uno di loro scoprì che a Vasto abitavo affianco di casa sua; era un pellicciaio e mi raccontò che aveva confezionato alcune pellicce per la moglie di Regan; io gli ho creduto all’istante.
La sera vollero riaccompagnarmi in albergo e vennero con tre macchinoni. Nella hall dell’albergo fecero un casino infernale di saluti e mi consegnarono lettere da spedire in Italia.
Io non sapevo come contraccambiare tutto questo e sapevo che non era per me, ma per quello che rappresentavo il quel momento per loro: io poche ore prima ero a Vasto nel loro paese natio.
Quasi mi annusavano per sentire odore di casa, se avessero potuto mi avrebbero aperto il cervello per guardare le immagini impresse della città.
Non avendo altro ho dato loro i giornali italiani presi in aereo e alcune cartoline di Vasto che avevo nell’agenda di lavoro.
Non potrò mai dimenticare quel giorno: non avrei mai immaginato quanto amore e nostalgia si portano dentro queste persone. Avevano tutti una buona posizione, i figli nati in america ci guardavano divertiti e ogni tanto si intromettevano con frasi mezzo vastesi ma di un vastese antico, e i padri “Sciarap!”, storpiando shut-up.
Erano partite con le pezze al culo, ora vivevano dignitosamente eppure rimpiangevano la casarelle del paese loro.
Quando salutai per ultimo la persona segnalata da mio padre, mi chiese di portargli un biglietto chiuso in una bustina.
Mio padre l’aprì, lo guardò qualche secondo e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Lo lasciai solo e non ho mai saputo cosa c’era scritto in quel biglietto.
A loro non era solo il paesello che mancava, ma anche quelle amicizie che resistevano a distanza di cinquant’anni.

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Written by vastesi

novembre 29, 2006 at 7:31 PM

Pubblicato su Memorie Vastesi

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